Lettera ai contadini della mia terra e di tutte le terre

    Cari contadini della mia terra e di tutte le terre, vi ricordate quel giorno? È stato un bel giorno quel giorno in cui abbiamo capito che se ci volevamo riscattare sul serio dal disprezzo del mondo e dalla schiavitù delle zolle, questo riscatto doveva essere pagato con il nostro sudore e il nostro sacrificio. Io sono andato a scuola a piedi tra il vento e la pioggia, per impervi sentieri, con lunghi cammini, voi siete andati all'estero indifesi e soli tra gente sconosciuta; avete dormito nelle baracche e avete fatto i lavori più umili e nei momenti di riposo vi siete preparati i pasti e lavati la biancheria o avete scritto alle famiglie lontane e avete desiderato avere accanto i vostri cari

    Voi con l'emigrazione e io con i libri abbiamo raggiunto lo stesso scopo.

    Con i risparmi che avete fatto, vi siete costruiti le case in città o nei pressi di strade frequentate e avete aperto botteghe e trattorie, dopo anni di servizio in ristoranti e negozi stranieri; o, dopo anni di apprendistato, siete entrati nelle fabbriche come operai specializzati. Avete viaggiato e accumulato tante esperienze e mentre prima pensavate che la vita consistesse solo nei doveri, da anni ormai conoscete dove arrivano i vostri diritti. I nostri figli, diversamente da noi, non sono cresciuti dietro gli animali e non hanno imparato solo la fatica. Occorreva andarsene dai campi per non essere più contadini. Noi ce ne siamo andati, rompendo gli schemi di un ordinamento sociale che durava da millenni. E' stata una rivoluzione totale la nostra e l'abbiamo fatta senza barricate, senza sangue e senza bandiere.

    In ogni epoca, presso ogni popolo, nessun padre, potendo scegliere tra i mestieri, ha consigliato al proprio figlio di fare il contadino, nessun figlio, anche se appartenente agli strati più poveri, un bel mattino si è alzato ed è corso ad annunciare ai genitori e agli amici la sua vocazione di arare i campi. Il contadino è l'unico mestiere che, costretti, hanno continuato a fare i figli dei contadini.

    Da anni, da sempre, gli altri ci hanno considerati fuori dal mondo civile. Ogni tanto sono venuti a osservare il nostro comportamento e a studiarci come se fossimo scimmie e pappagalli, sono venuti superbi o pietosi in mezzo a noi, ci hanno interrogati e hanno assistito curiosi o divertiti alla nostra lealtà, hanno goduto delle nostre reazioni e se ne sono andati, contenti di non essere come noi. La nostra fede l'hanno chiamata superstizione, la nostra pensosità intontimento; il nostro amore passione selvaggia, la nostra energia forza bruta, la nostra semplicità nient'altro che rozzezza e ignoranza.

    La nostra, poi, non è stata ritenuta cultura, ma folclore e a nulla sono valsi i nostri innesti, i tralci disposti con simmetria, i solchi diritti, le mete di paglia e di fieno con pendenza perfetta, le decorazioni dei carri e degli aratri, le serenate che abbiamo composto per l'amata e cantato sui colli, le ninne nanne con cui abbiamo acquietato i bambini del mondo, le canzoni con cui abbiamo accompagnato i nostri lavori e i nostri pellegrinaggi. Allo stesso modo, non è stata data alcuna importanza al nostro rispetto nei confronti della terra madre. Infatti, finché noi siamo stati custodi del territorio, rari o rarissimi sono stati gli smottamenti e le frane, rare o rarissime sono state le alluvioni, perché piantavamo alberi che con le loro radici trattenevano il terreno che tendeva a scivolare, perché ogni rettangolo o quadrato di terra era delimitato da fossi che ogni anno venivano rifatti o puliti e non permettevano il ristagnare neppure a una goccia d'acqua.

    Solo quando abbiamo fatto del male, ci hanno reputato consapevolmente cattivi, razionalmente spietati: per il resto, ci siamo comportati con istinto e senza gusto e siamo stati come animali che si accoppiano mangiano bevono e lavorano, ripetendo gesti e azioni di cui non si rendono conto. Tuttavia, nei periodi di decadenza ci hanno considerati come la loro riserva umana e come uccelli rapaci sono venuti a cercare e a prendere da noi quei sentimenti originari che per smodatezza o ambizione avevano perduti. Si sono appropriati così dei nostri usi, delle nostre parole, dei nostri riti, dei nostri balli, delle nostre cassepanche; hanno attraversato in lungo e in largo le campagne alla ricerca dei nostri cibi genuini e del nostro modo di prepararli: e tutte queste cose quando erano presso di noi le hanno schifate presso di loro invece, sono diventate belle, hanno acquistato prestigio e hanno dato al loro animo una verniciatura di sensibilità.

    Cari contadini, da anni, da sempre tra capo e collo ci stava una tradizione che era disprezzo. Sugli autobus, sui treni si sono seduti a forza accanto a noi. "Ecco, questo è un contadino" diceva tra se' il truffatore e si preparava a intrappolarci. "Ecco, questo è un contadino" pensava il medico e ci trovava malattie lunghissime. Se ci trovavamo in città, quelli che ci vedevano passare ci additavano ai loro figli: "Guardate, sono quelli i cafoni". Se una donna andava vestita male o alla buona la rimproveravano: "Sembri una contadina". Quando un bambino mangiava la mela o il pane, tagliandoli a pezzi con il coltello, i presenti lo aggredivano: "Non così, così mangiano i contadini". Ogni ragazzo che andava male a scuola o non voleva imparare un mestiere, i genitori lo minacciavano: "Zapperai la terra!". Quando un giovanotto faceva l'imbecille o il maleducato con una ragazza, quando uno entrava col cappello in testa o usciva lasciando la porta aperta, quando uno beveva e si asciugava bocca con la manica, gli dicevano o pensavano di dirgli: "Villano!", attribuendo così a noi ogni loro indecenza.

    A chi aveva uno schizzo di fango o una macchia qualunque sul vestito o sulle scarpe si chiedeva con disgusto: "Da dove vieni, dalla campagna?", e poiché i luoghi ritenuti colpevoli di sporco erano i nostri, noi, quando uscivamo da essi, ci rimboccavamo i calzoni, esponendo nudi gli stinchi alle spine, attraversavamo scalzi i rivi,camminavamo scalzi sui sassi appuntiti e solo prima di entrare in paese ci mettevamo le calze e le scarpe.

    Ora che la civiltà contadina non c'è più, ai giovani che vivono nelle comodità, ai giovani che sono diplomati o laureati, ai giovani che conoscono ogni segreto dei telefonini e dei computer diciamo di provare a entrare nel mondo che noi abbiamo lasciato. Coltivare i campi per loro non sarà una condanna, ma una libera scelta; non solo, ma nessuno può sapere quali orizzonti gli potrà aprire davanti il contatto vero con la natura. Essi, poi, useranno le macchine e non saranno chiamati contadini, ma tecnici o industriali della terra.

    ALESSANDRO PETRUCCELLI

    La lettera è stata pubblicata, sia on line che in versione cartacea, da alcuni periodici nazionali, tra cui: "la rivista di slow food", "Leggere tutti", "Mondo agricolo", "Terra nuova", "Regioni.it", "L'osservatore d' Italia", "Agricoltura Oggi" , "Patria letteratura", "Amici per la Terra", "EarthDay.it", "Il bestiario degli italiani", "Agralia", Museo Civiltà Contadina Valle dell'Aniene, Museo Civiltà Contadina di Matera, Museo Villa Smeraldi, Terra! " Latina oggi del 5 maggio 2019", Museo Civiltà Contadina di Pastena, "Ciociaria notizie"," Caserta Sera",, Il giornale nuovo.it, Latina corriere, Roma in campagna, L'inchiesta quotidiano, Balarm, Sanfrancesco.org, Anagnia.com, Abitare a roma, Nostrofiglio

    alessandro petruccelli

    Alessandro Petruccelli, nato a S.S. Cosma e Damiano (LT) vive e lavora a Formia, Laureato in Lettere, ha insegnato negli istituti superiori. Coniugato con Caterina Giannotti, insegnante di lettere, ha due figlie, Fiorella e Ines anche loro laureate in lettere. I suoi 4 nipoti sono: Salvo, Francesca, Alessandro e Caterina.


    L'ammonistrazione comunale di S.S. Cosma e Damiano (LT) il 9 dicembre 2006 gli ha conferito la cittadinanza onoraria per meriti culturali.

    e-mail  info@petruccellialessandro.it

     
    Dal Dizionario ragionato degli scrittori italani del '900

    dizionario

    Petruccelli Alessandro

    Narratore sempre volto a temi di grande attualità (politica. storica, morale), P. sembra riassumere in sé e rinnovare le istanze della fervida sta­gione del romanzo italiano del '900. Alimentate da un realismo severo ma aperto a casistiche accese al di là di un programma realistico, le sue opere entrano con piglio deciso e giusta collocazione in aree di acerbe polemiche relative a periodi cruciali ( fine anni '60 e '70. per es.). E’ subito Un giovane di campagna ('76. Edd. Riuniti. pref. di G Manacorda) a interessare critica e pubblico (il rap­porto città/campagna sarà poi ancora elemento tra proposta di tesi e materia di affabulazione). Tradotto anche in russo (e in braille, il romanzo pone in risalto la figura del suo autore, nuova e coraggiosa (ne uscirà inoltre un'ed. per la scuola e sarà a lungo un best-seller). Anche Due compleanni e una Cttà ('85. Le Stelle, poi Marietti) trova motivo di conferma circa il particolare talento dello scrittore intanto segnalato da significativi premi letterari. Una cartella piena di fogli (Edd. Riuniti, pref. di G Pampaloni) fa persino intravedere una lucentezza connettiva tra il neorealismo italiano e sfumate inquietudini che rievocano certa scrittura russa (Gogol'); Il pensio­nando (99, Ed. Lavoro) affronta, con lo smalto e l' allusività tipici di P., dolorosi e grotteschi argomenti attuali, senza abbandonare quel pedale classico che ha sempre accompagnato la sua vigorosa e lucida produzione.

     
    Dal Dizionario critico della Nuova Leteratura italiana

    dizio

    Petruccelli Alessandro

    E’ autore del famoso Un giovane di campagna che, nel 1976, venne accolto con entusiasmo dalla critica e dai lettori, e che fu ristampato tante volte negli anni successivi. Il romanzo, prefato dal Manacorda, sarebbe stato tradotto in braille nel '77 e in russo nove anni più tardi. A. P., che è stato insegnante di Lettere presso Formia, raccontava la storia di Pietro, un giovane nato e cresciuto nel basso Lazio, e delle trasformazioni epocali del secondo dopoguerra, quando la terra sarebbe stata abbandonata da molti, facendosi, una storia personale, quella di una collettività e forse dell'Italia stessa neo-metropolitana. Lo stile petruccelliano persegue un realismo di tipo favolistico, verista com'è nelle tonalità e nel linguaggio, ma volto all'imprevisto e al viaggio per mondi sempre poetici e sospesi. Dopo il romanzo Due compleanni e una città (1985), che ha ricevuto il Premio di Cultura della Presidenza del Consiglio, ecco Una cartella piena di fogli (1990) con la prefazione di Geno PampaIoni e Il pensionando (1999) che ha vinto il Premio Santa Margherita Ligure 2000. Ne La favola dell'uomo senza amici (2006), Petruccelli fa parlare un ex professore in pensione con una bottiglia e una trombetta e una rosa e con altri oggetti parlanti che squadernano storie surreali. Del 2014 è La lettera e il viaggio, avventura incredibile di un'aspirante scrittore, cui seguono le fiabe La mucca sposella, L'uomo solo e la formica e L'asino Giacchino.Molti i premi, i riconoscimenti e le interviste televisive Rai che A. P. ha ricevuto durante la sua lunga carriera. (Andrea Pellegrini)

     
    Candidato al premio Nobel (dalla rivista Leggere Tutti)

    dizioUn riconoscimento particolare per lo scrittore Alessandro Petruccelli

    L'associazione Dario Prisciandaro di Perdifu­mo (SA), che gestisce il premio culturale omo­nimo e il meeting della fede ha segnalato lo scrittore Alessandro Petruccelli alla Fondazione Nobel di Stoccolma e si è incaricata di spedi­re i suoi romanzi e le sue favole alla medesima Fondazione presso l'Accademia di Svezia. Oltre a La lettera e il viaggio (Gremese 2014), Alessandro Petruccelli ha pubblicato diversi romanzi, tra cui il long seller Un giovane di campagna (che fu pubblicato per la prima volta con Editori Riuniti 1976 e poi con Gremese nel 2010 - libro vincitore di numerosi premi tra cui il Premio Rapallo per narrativa inedita nel 1976), Una cartella piena di fogli (Editori Riuniti 1990 ‑ Interlinea 2001), Il pensionando (Edizioni Lavoro 1999) nonché alcune favole con Graphe Edizioni di Perugia.